L'ERMENEUTA

L’ermeneutica a partire dall’etimo greco hermeneutikè (téchne), “interpretazione, traduzione”, ha individuato nei secoli il processo di ricostruzione della semantica profonda dei testi, per canonizzarsi in procedimento più intrinsecamente storico, avente cura della mens auctoris.
L’ermeneuta, immerso in uno spazio aureo, per antonomasia intraducibile, è qui proposto in chiave di personale autoritratto, appropriato delle iconografie ambigue del bagatto, primo dei tarocchi, tramite la mano destra posata sul tavolo, che reca inciso il numero I, e l’affiorante bacchetta di legno. A tale figura viene attribuito ruolo di illusionista, tributario di una fittizia speculazione esoterica, basata sulla cabala ebraica, che investe l’intero gioco dei tarocchi; riferimento vivo nella raffigurazione tramite l’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico, segnata nell’angolo del tavolo in basso a destra, in un gioco di corrispondenza tra il nome dell’autore (Stefano, dal greco Stephanos che letteralmente significa “corona”) e il paragone della lettera alla prima Sephirah della cabala (Kether, identificata nella Corona).
Il ritratto, manifesta dunque le sue intenzioni e si spoglia della sua apparente ambiguità, per vestirsi di nuova ironia: l’ermeneuta è qui figura satirica, filosofo munito per l’interpretazione dei soli mezzi del prestigiatore

"L'Ermeneuta", Autoritratto

Aracne Hybristes

L’opera ricalca il mito greco di Aracne, di cui viene colto il momento immediatamente precedente alla condanna della dea Atena ai danni della giovane donna peccante di tracotanza e mutata in ragno. Nella raffigurazione vi sono chiari riferimenti al luogo di origine della ragazza, figlia di un tintore della Lidia, vestita di porpora e recante un guscio del mollusco responsabile della produzione del medesimo colore; vicino ad esso un ragno, presagio dell’imminente metamorfosi. Sullo sfondo vi è il simbolo della hybris della tessitrice, ovvero l’arazzo sfidante la dea, sul quale sono descritti gli amori divini di Zeus e Europa, Leda e il cigno ed infine Demetra e Poseidone.

L’opera reinterpreta il martirio della santa ricalcando l’iconografia classica, nonostante risulti vestita del solo velo della passione cristiana. La superficie pittorica si lacera in corrispondenza della gola della giovane donna, laddove il supporto ferito diventa esso stesso la pugnalata fatale da cui stilla una perla sanguigna. Si genera così un dialogo tra la pittura e il suo supporto, che compartecipano alla narrazione del martirio.

Santa Lucia

La Ctonia Dimenticata, Cupra

Le divinità Ctonie sono figure principalmente femminili legate ai culti di dei sotterranei, da chthònios “sotterraneo”. Nella fattispecie la dea qui raffigurata, Cupra, era una divinità presso gli antichi umbri e piceni, depositaria della fecondità. Risulta dunque chiara nella rappresentazione come la figura giaccia sul terreno dato dal legno del supporto eviscerato, mentre dalla sue membra si sviluppino germogli fioriti.

Partendo dal concetto teologico della Pietà, la figura nella forma ne riprende la tradizione iconografica, specialmente nel capolavoro michelangiolesco. Tuttavia essa, orfana nel grembo, si dispone al valore della Pietà negata, rivolgendo lo sguardo laddove giaceva il figlio. Eppure, la superficie rimossa non più percepita come privazione, ma come diverso linguaggio figurativo rispetto alla pittura, può essere interpretata identificando la donna come figura cristologica, riappropriatasi della Pietà perduta. In tal senso il sentimento di pietà si manifesta attraverso il darsi dell’opera stessa, offerta o sacrificio rappresentato da una pittura intimamente legata al suo supporto il quale diviene esso stesso opera. Le viscere della figura corrispondono a quelle della tavola, abbattendo così la dicotomia tra pittura e supporto. Pertanto viene meno la concezione di pittura come spazio illusorio, laddove a tradire l’artificio è proprio il suo fondamento.

Pietà

Eikòn

L’icona è stata nei secoli strumento e veicolo di culto presso i popoli. Nel rito cristiano, ampio e lungo è stato il dibattito tra le istanze iconofile e iconoclaste, e l’atto di tributarsi ad esse di devozione o adorazione. Nell’opera viene esplorata l’ambiguità di questo mezzo; in essa la figura aureolata appare sfigurata da un violento atto iconoclasta ed è rappresentata intenta a cogliere la natura del danno diretto verso il proprio volto. Esso appare scavato e deturpato in una furia de-personalizzante. Il delicato gesto delle mani, e il flessuoso atteggiamento del corpo, tradiscono tuttavia un sottile erotismo, gettando l’ombra di un ambiguo compiacimento.

Nella pittura, l’inclusione di elementi votati a simboleggiare un determinato concetto è spesso stata presente. Nella fattispecie, quelli qui rappresentati, hanno sempre avuto un’accezione positiva, volti alla vita e alla prosperità. In tale presunto elogio alla vita si cela tuttavia il valore opposto della caducità, laddove le corna del capriolo, simbolo di rinascita, appartengono alle sue spoglie, similmente al fiore è reciso il suo stelo; dell’arancia, allegoria di prosperità, rimane la sua scorza e l’uovo, con le sue molteplici sfaccettature emblematiche, si presenta nella sua polita superficie, corrotto da crepe e imperfezioni. Ne risulta dunque un’immagine di illusioni, espresse anche nella forma, attraverso compenetrazioni impossibili e in alto, l’ape, omaggio alle pitture quattrocentesche.

De Deceptione

Lo Zelo

Nella tradizione artistica islamica non è prevista la rappresentazione figurativa, poichè l’atto creativo è prerogativa unica di Allah. Sussiste tuttavia un’iconografia costituita da miniature, il quale impianto formale viene richiamato nell’opera. Il soggetto così circoscritto, si rapporta alla cornice in un dialogo simbologico ebraico-islamico. La palma e il cedro nelle mani della donna richiamano alla festa ebraica del Sukkot, celebrata in corrispondenza dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, acclamato principalmente dagli Zeloti. Questi ultimi riconobbero in Cristo un potenziale leader alla ribellione al dominio romano, speranza disattesa che portò al mancato appoggio popolare durante il suo processo. I caratteri islamici invece, riportano lo scioglimento dell’acronimo Hamas, organizzazione politica e paramilitare attiva in Palestina. L’analogia dunque si manifesta tra quest’ultima sigla, traducibile “zelo” e il nome della setta ebraica, condividendo oltre alla stessa radice linguistica la medesima ideologia di base, cosa che ha prodotto nei rispettivi gruppi la fama di terroristi. L’intera opera si muove dunque in un gioco di analogie e contrasti, laddove le ideologie uniscono e le religioni dividono, dove l’impianto formale di matrice islamica si contrappone alla figura centrale, la quale non rifugge alcuna mimesi, salvo nascondere il viso.

Ispirandosi alle istantanee di Yvette Chauviré sul linguaggio delle mani, l’opera tenta di trattare il tema della mancata corrispondenza amorosa, per cui vediamo contrapposte le due immagini della rifiutante e del rifiutato. Se dunque su un lato vi è la giovane che con le sue mani lascia intendere una negazione, al suo fianco quelle dell’uomo assumono una postura contorta, sintomo della propria sofferenza. Ulteriori contrapposizioni si riscontrano negli sfondi delle due figure, quello femminile, vivace, assume uno schema geometrico composto da frecce rovesciate, mentre in quello maschile, più cupo, le stesse sono rivolte verso l’alto, laddove esse stanno ad indicare i due sessi.

Dittico del Rifiuto (Rifiuto, Tortura)

Trittico della Diaspora, o sulla Dispersione (Sis, Deir el-Zor, Ararat)

All’interno del trittico, ogni dipinto ha un nome specifico, i quali identificano luoghi geografici ben precisi e che susseguendosi, tracciano un percorso geo-temporale che ricopre alcune delle pagine più buie della storia del popolo Armeno. A partire da Sis, storica città e centro religioso dei cristiani armeni decaduta successivamente nel XV secolo a seguito di varie occupazioni straniere. Deir el-Zor ci porta invece ad eventi molto più vicini a noi, essendo una località nel deserto siriano dove si concludevano le marce della morte durante il famoso genocidio del primo 900. Ararat si discosta dal discorso crono-geografico, essendo esso il complesso montuoso identificato come sito di approdo dell’arca di Noè al termine del diluvio universale diventando poi simbolicamente luogo di riposo delle vittime del genocidio. Il trittico dunque esemplifica, recuperando il mito greco-romano delle Parche, la diaspora del popolo Armeno. Tuttavia il riferimento mitologico si limita ad una citazione formale, poichè il tema della filatura si lega alla tradizione tessile armena, evidenziata dal fondo della prima tavola, (Sis) raffigurante un tappeto (Lori Pambak). Lo stesso viene poi riproposto nel secondo dipinto, (Deir el-Zor) ridotto tuttavia in pixel e dunque quasi irriconoscibile, per giungere nell’ultimo, (Ararat) ad uno spazio nero, sul quale si stagliano i versi del poeta armeno Daniel Varujan, vittima del genocidio.  

“É questa l’ora, anima mia, che sola come la cicala
tu riposi sulle cime;
che nell’incorrotta quiete
tu t’inebri del tuo canto
come il sole della sua luce, solo con la sua luce.”

La figura richiama evidentemente la crocifissione di Gesù Cristo seppur in una chiave iconografica inconsueta, ponendo l’accento solo sui piedi del suppliziato, fuggendo dunque da chiare personificazioni col Messia. Tale scelta si giustifica tramite il chiodo, che infisso nella tavola fa pendere da esso un fischietto d’emergenza, strumento di corredo ai giubbotti di salvataggio. Questo elemento traccia quindi un parallelismo tra il martirio del figlio di Dio e le vittime del mar Mediterraneo a noi contemporanee. Il versetto tratto dal vangelo di Luca che funge da titolo dell’opera “Padre, perdonali, perchè non sanno quello che fanno” segna anch’esso un’analogia col contesto sociale contemporaneo, nonostante l’opera sia ben lungi dall’essere partigiana, poiché essa parla dei morti, e i morti in quanto tali non hanno alcun colore.

Luca 23:34

Fireflies Never Leave

Nella cultura folcloristica dell’Africa centro-occidentale vi sono presenti molti miti e storie legati alla magia tribale; in particolare tra il Ghana e il Togo, è presente ciò che viene chiamato Adze, un vampiro che si aggira sottoforma di lucciola e che, una volta catturato, riacquisisce delle forme umane. L’opera si basa dunque su questa credenza antica per creare un parallelismo con le situazioni socio-economiche locali contemporanee, laddove l’Adze incarna il fenomeno del neocolonialismo delle nuove potenze emergenti, in primis la Cina, che “vampirizzano” gli stati africani. Il soggetto raffigurato si ritrova perciò circondato da uno sciame di lucciole su uno sfondo che evoca le pitture facciali delle tribù depositarie del mito sopracitato. Inoltre, sulla spalla, vi è posata una mano che reca sul lato i caratteri cinesi “沉默” (silenzio), che gettano un’ombra sul presunto gesto di rassicurazione.

Le due tavole raffigurano alternativamente due paesaggi onirici e geometrici che dialogano tra loro in un’intesa e contrasto di luce e colore. Il calore della prima accoglie in uno spazio solitario dal sapore desertico un totem, o una torre, su cui si riflette una innaturale luce diurna calda e bruciante. La seconda invece offre alla vista due misteriose piramidi cerulee stagliarsi nei toni freddi di un ambiente fermo e ghiacciato.

Impressioni Metafisiche

La Madre Defunta

Nel 1966 la Cina fu testimone dell’inizio di una delle più violente cesure col passato della storia consistente nella sistematica distruzione della cultura precedente all’avvento del comunismo, liquidata come “vecchiume borghese”. L’opera si concentra dunque sul lascito di quel periodo, ponendo l’accento sulla perdita, sulla negazione e l’obliazione del passato. La figura veste abiti tradizionali Qing di cui si intuiscono solamente le forme poichè la campitura piatta bianca, colore utilizzato tradizionalmente per i riti funebri, ne cela la foggia. Il fondo oro che la circonda è lacerato lasciando intravedere sotto di esso un violento rosso su cui si staglia il titolo del libretto di Mao, libro emblematico del periodo rivoluzionario. Gli oggetti nelle mani della donna sono testimonianze di una cultura mutilata, il fiore di loto, fiore importante nella religione buddhista, è appassito e dal ventaglio bruciato affiorano, al posto del telaio in legno, degli incensi votivi ai morti. Su di esso inoltre sono dipinte scene ispirate dalle illustrazioni dei pittori delle dinastie Ming e Qing ed è presente una poesia di Chenz Ziang, poeta del periodo Tang.

Canto dalla terrazza di Youzhou

“Non vedo l’uomo dell’antichità,
non vedo nessuno che lo seguirà,
L’infinità di cielo e terra sento,
e spargo lacrime solo e sgomento.”

La bacchetta posata come calamo muto, le vesti abbandonate come macchia d’inchiostro.
Nessuno sguardo, nessuna figura, neanche l’oro è rimasto a mantenere l’illusione.
Rimane il legno, come da principio.. dopotutto si è sempre trattato di quello, solo tavole di legno.
L’Ermeneuta non c’è più.

Il Ritiro dell'Ermeneuta